mercoledì 16 settembre 2009

Rilancio economico italiano....con benzina annacquata.

Prima il rilievo di un incremento degli ordinativi. Ora l’OCSE indica che a Luglio la produzione industriale ha segnato un confortante +1% su base mensile. Per il terzo trimestre potremo quindi attenderci - noi non pessimisti - l’uscita dalla recessione.

Ma se è vero che questa crisi sta passando, noi abbiamo iniziato a chiederci cosa abbiamo imparato e soprattutto quali azioni correttive sia opportuno imprimere alla nostra economia?

In Italia, come in tutti i paesi industrializzati, abbiamo vissuto questi mesi caratterizzati da aiuti di stato (i soliti ecoincentivi a dare ossigeno all’automotive) e limpide pressioni verso torbidi scenari economici (il nucleare).

Ma è abbastanza per sentirci più tranquilli?

A livello strutturale, a mio avviso, nulla è stato fatto. La benzina usata per far correre il motore della nostra economia è annacquata e il rischio è che il motore si spenga di nuovo. Siamo sempre il solito paese troppo sbilanciato fiscalmente a penalizzare il reddito lavorativo e a incentivare quello patrimoniale. O almeno, rispetto alla media dei paesi industriali, i redditi dei lavoratori italiani sono troppo tassati, a vantaggio delle proprietà multimilionarie. Ne è conferma il fatto che da tempo i russi dal portafogli a forma di 24ore vengono a trovarci per acquistare immobili, non certo per fare impresa.

Un economista liberale, quale mi auguro sia Tremonti, non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di ridistribuire i pesi sulla bilancia: ridurre dopotutto la pressione fiscale sui redditi da lavoro servirebbe a rilanciare il potere d’acquisto e quindi i consumi delle famiglie italiane (e varrebbe senz’altro più che i simpatici messaggi promozionali tanto cari al nostro Presidente del Consiglio).

Certo, le finanze statali dovrebbero pescare altrove. Ma quale pesca potrebbe essere più produttiva di una contemporanea stretta fiscale sui grandi patrimoni? La voglia di fare impresa non tarderebbe a venire ai nostri ricchi feudatari contemporanei.

In questo contesto massima importanza è rivestita dalla strategia per il rientro dei capitali dai paradisi fiscali: in Italia è in vigore dal 15 Settembre uno scudo invitante (almeno rispetto a quello deciso dai tedeschi, essendo da noi l’aliquota fissata al 5% e l’anonimato garantito). Ma, semmai questo condono serva a qualcosa, è chiaro che il quadro strategico sarebbe completo solo con una rinnovata lotta ai paradisi fiscali, intrapresa mesi fa dal trio franco-tedesco-americano e ora piuttosto assopita. Lotta da riprendersi al più presto con azioni comuni che ne massimizzino l’efficacia.

Insomma, non si tratterebbe di togliere ai ricchi per dare ai poveri. Piuttosto si potrebbe interpretare questo banale pensiero come un riallineamento fiscale sulle orme di altri paesi industrializzati e sotto la protezione di un più severo controllo in materia di evasione fiscale che consentirebbe un aumento dei consumi e dell’occupazione, rilanciando la competitività economica del paese.

In uno scenario che troppo spesso ha visto larghe concessioni ai ricchi pigri (si pensi al travaglio per evitare la tassa di successione), ci vorrebbe un intervento liberale che sappia spostare i patrimoni da chi dorme a chi lavora.

Auguriamoci dunque che Tremonti non ascolti troppo chi dorme e mandi tutti a lavorare!

lunedì 2 marzo 2009

Volete voi il nucleare?

E così arriva il momento di decidere, semmai ci verrà offerta possibilità di farlo.

Berlusconi e Sarkozy hanno firmato il 23 febbraio 2009 un accordo intergovernativo per la realizzazione di quattro centrali nucleari su territorio italiano da rendere operative a partire dal 2020, ciascuna capace di 1600MW.

La joint-venture firmata tra ENEL e EDF manifesta la serietà di un disegno industriale basato su impianti di terza generazione (la quarta è ancora lontana dall’essere progettabile) al quale parteciperanno altresì una serie di società legate all’atomo e altre “chilowattora divoratrici”.

Occorre considerare come tutti i paesi industrializzati siano attivi in campo nucleare da oltre trenta anni, e che tuttavia da tempo abbiano imboccato la via delle rinnovabili, dedicando loro il grosso degli investimenti. Il nucleare rappresenta un’interessante possibilità di diversificazione rispetto alle fonti energetiche rinnovabili, come dimostra l’impegno dei paesi piú nuclearizzati a non smantellare gli impianti attivi.

Ora, gli unici paesi europei che si affacciano all’atomo e hanno richiesto autorizzazione per la progettazione sono Italia, Bielorussia e Turchia.

L’ingegneria ha indiscutibilmente rimediato alle insufficienti misure di sicurezza passiva che resero tristemente famosa Tchernobyl e ha introdotto soluzioni tecniche in grado di sopportare la minaccia di attacchi terroristici aerei ma non ha ancora risolto il problema centrale dello smaltimento delle scorie radioattive. Problema non trascurabile, soprattutto in un paese in cui la malavita organizzata ha dimostrato di saper compromettere l’integrità del territorio con la gestione illegale dei rifiuti.

Quindi perché investire in una tecnologia vecchia, in totale controtendenza rispetto ai paesi piú avanzati? Perché investire in questa tecnologia in un paese che è stato definito “l’Arabia Saudita delle rinnovabili”?

Nella speranza che gli italiani siano coinvolti in questa scelta, che secondo il ministro Scajola sarebbe obbligata, mi auguro che il referendum venga formulato con chiarezza e trasparenza.

mercoledì 18 febbraio 2009

TRATTATO DI KYOTO: LA SITUAZIONE ITALIANA

L’Italia suona la carica?

Forse è troppo presto per dirlo, visto che la situazione è sconfortante. I dati più recenti parlano chiaro: siamo in forte ritardo rispetto agli obiettivi ratificati con il trattato di Kyoto.

I principali siti industriali di Taranto e Brindisi (come apparso in una recente indagine di Greenpeace) appartenenti ad ENEL, EDISON, SARAS e altre, hanno emesso nel 2007 tante tonnellate di gas inquinanti in eccesso rispetto alle quote loro assegnate che viene da chiedersi se non siano da porre sotto sequestro.

La centrale dell’ENEL di Montalto di Castro (VT) ha emesso oltre sei volte la quantità di gas che le era assegnata e occupa orgogliosamente la quinta posizione tra gli impianti più inquinanti della penisola.

Secondo l’INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e delle loro Sorgenti), lo stabilimento dell’ILVA (Taranto) è invece il trionfo della diossina, che nel Tarantino si trova in concentrazioni ormai ben oltre la soglia di preoccupazione ed ha già portato all’abbattimento di bestiame contaminato. Diossina che dal 1997 è classificata dalla IARC (International Agency for Research on Cancer) come certamente cancerogena e responsabile di malformazione nei feti.

Il continuo parlare di energia da parte dei politici italiani non basta: i contatti con il governo albanese, intesi a valutare la redditività di un’eventuale centrale nucleare italiana su territorio balcano, sembrano non portare a nessuna soluzione. La prospettiva nucleare, al di là delle sue problematiche di fattibilità e di economicità, produrrebbe il primo Kilowattora solo tra 12-15 anni; considerato che il nostro cammino verso gli obiettivi di Kyoto è già in forte ritardo, c’è da chiedersi se sia corretto seguire tale strada.

Nel frattempo c’è chi perde la pazienza: sono le migliori menti italiane al servizio della scienza, le quali, coscienti dell’immobilismo italiano, decidono di mettere la propria intelligenza a disposizione di paesi che hanno le idee ben chiare. E’ il caso del nostro Premio Nobel Carlo Rubbia, emigrato in Spagna per contribuire al rinnovamento del sistema energetico locale in favore di fonti rinnovabili.

E’ certamente questo l’aspetto più vergognoso della realtà energetica e ambientale italiana.

Tuttavia vi sono anche buone ragioni per essere ottimisti:

Nel 2006, in continuità con gli anni precedenti, sono stati installati 9 MW di impianti fotovoltaici e 417MW di impianti eolici.

Nel 2007 il cambio di marcia con 70MW di fotovoltaico e 806MW di eolico e nel 2008 altri 200MW di fotovoltaico e 1010 MW di eolico.

Insomma, la passione per le fonti energetiche rinnovabili è sbocciata e il bel paese sta scoprendo in particolare il piacere di essere baciato dal sole.

Guidano la corsa all’installazione di impianti eolici le regioni meridionali (Puglia e Sicilia su tutte).

L’installazione di impianti fotovoltaici è invece molto attiva anche al Nord, dove Lombardia e Trentino Alto Adige guidano il gruppo.

A quanto detto si aggiunga che la produzione energetica attraverso sfruttamento di biomasse è in notevole aumento.

Certamente il 2009 sarà un anno quanto meno ostico per gli investimenti, vista la crisi globale in corso. Tuttavia in ambito energetico si potrà se non altro contare sulla proroga della detrazione fiscale del 55% per interventi di riqualificazione energetica degli edifici, secondo la legge 27 dicembre 2006 n. 296 rivista dal decreto Anticrisi 185/2008. Tale legge, emessa sotto l’ultimo Governo Prodi, ha indiscutibilmente determinato l’impennata dell’installazione di pannelli solari. Il Governo Berlusconi, dopo avere parzialmente sacrificato l’incentivo per esclusive ragioni di cassa pubblica, ponendo un tetto di spesa annua incompatibile con l’andamento del mercato in questione, é ora saggiamente tornato sui propri passi prorogando nella sua forma originale tale legge che consente di ottenere benefici ai produttori e agli utenti senza gravare sulle casse dello Stato.

Ora più che mai occorre continuità nelle decisioni al fine di infondere sicurezza negli investitori di un mercato che si sta rivelando come il più attrattivo del nuovo secolo e dal quale potrebbe molto probabilmente arrivare la spinta necessaria a superare l’attuale recessione economica.

Più in generale la politica dovrebbe abbandonare la strategia dell’interventismo sulle situazioni di emergenza e convertirsi ad una responsabile gestione a lungo termine favorendo investimenti nel settore ambientale a 360 gradi finalizzati allo sviluppo del paese.

Per fare questo servono uomini lungimiranti al Governo in grado di rinunciare al consenso popolare per riportare il paese sulla strada corretta.

Forse è troppo presto per valutare se saremo in grado di soddisfare i nuovi obiettivi imposti dall’Unione Europea al nostro governo per il 2020, ma ritengo che i cittadini ed i piccoli imprenditori italiani si stiano attivando positivamente prendendo le decisioni che la classe politica dirigente avrebbe dovuto prendere da tempo.

martedì 10 febbraio 2009

CRISI ECONOMICA – PRIME RIFLESSIONI

E dopo la crisi finanziaria è arrivata nel “BelPaese” anche la crisi economica, o quella “reale” come buona parte degli insiders amano definire l’economia industriale.
E mentre la prima è giunta alla ribalta dell’opinione pubblica nell’autunno del 2008, la seconda si è manifestata con l’anno nuovo.
Ma se la prima ha bruciato, nel solo 2008, il 46% del valore dei titoli quotati alla Borsa di Milano (record mondiale di perdita registrata nell’anno solare, in contrasto con le rassicurazioni di molti politici bipartisan sulla tenuta del nostro sistema finanziario) e un ulteriore 9% nel solo mese di gennaio 2009 e dunque attraversa un grave e perdurante stato di allarme, la seconda inizia solo adesso a esplicitare i primi disagi economici e sociali.
E così non stupiamoci se molti di noi non hanno ancora cambiato le proprie abitudini; la crisi arriverà presto e devasterà le classi deboli e medie del nostro Paese, porterà disoccupazione, tensioni sociali e generazionali, alimenterà chiusure territoriali.
Questa crisi sarà forse una grande opportunità esclusivamente per le classi “agiate”, che troveranno nei prossimi mesi enormi e fruttuose opportunità d’investimento.
Andando in giro per la ricca Brianza e avendo la fortuna di poter quotidianamente tastare il polso all’imprenditore locale, ne esco con un quadro drammatico e seriamente preoccupante.
Dubito che questo Paese tornerà più quello di prima.
Sarà certamente più povero, speriamo almeno che diventi un po’ più giusto e responsabile.
Non sono solito, almeno quando scrivo, utilizzare aggettivi iperbolici, ma l’eccezionalità dell’evento che stiamo vivendo e la mia giovane età non mi permettono di esprimermi diversamente.
Leggo i dati consuntivi della produzione nazionale di gennaio e mi vengono i brividi, sento gli imprenditori delle piccole e medie imprese e all’unisono mi parlano di “crisi di liquidità” e di “crollo degli ordini”.
Certo, qualcuno potrà correttamente obiettare che alcuni problemi della nostra classe imprenditoriale hanno natura strutturale, ossia nascono da lontano.
E’ vero, l’impresa italiana è generalmente sottocapitalizzata, con un livello medio di istruzione del gruppo dirigente inferiore alla media europea, soffre di nanismo e di familismo (due caratteristiche di per sé non negative, ma che creano inefficienze in alcuni settori economici e nei casi in cui si limitano modelli alternativi quali il merito e la managerialità di chi occupa posizioni apicali all’interno dell’azienda).
Ascoltando le parole degli ultimi premi nobel dell’economia, capisco che la crisi oltre ad essere grave è globale e peggio ancora, è destinata a durare almeno un biennio (ma nessuno forse sa veramente quando finirà).
Sono personalmente a conoscenza della seria preoccupazione di un noto top manager di una delle nostre più importanti banche nazionali.
Il quadro è così riassumibile ed è valido per buona parte dei nostri istituti di credito (con la positiva eccezione delle banche cooperative, per precisi divieti statutari): i bilanci bancari sono “inquinati” da attivi ipervalutati, i “derivati” in particolare, strumenti finanziari complessi che le banche hanno offerto un po’ a tutti in questi ultimi anni (imprese, associazioni, amministrazioni comunali, provinciali e regionali, partiti); occorrerebbe svalutarli, ma di quanto non è dato sapere, poiché una buona parte di essi darà effetti in futuro; nel frattempo il livello di capitalizzazione delle banche crolla e i conseguenti aumenti di capitale, a sostegno dell’equilibrio patrimoniale, faticano a trovare collocazione sul mercato. Nessun investitore privato acquista oggi in borsa pacchetti azionari di banche, lo fanno per motivi evidenti gli investitori istituzionali (altre banche) ma è il gatto che si mangia la coda, oppure alla peggio arrivano in soccorso gli speculatori, i cui interessi storicamente raramente coincidono con quelli degli istituti.
Le banche in questo modo sono deboli, aspettano ad utilizzare gli aiuti di Stato (cosiddetti Tremonti – bond) perché temono riflessi negativi in Borsa e restringono pesantemente l’accesso al credito, linfa vitale per le imprese.
Le quali, le meno organizzate in particolare, subiscono inermi la caduta di fatturato e la contrazione creditizia, tardano i pagamenti a favore dei fornitori, generando così una spirale che inghiotte tutti, anche i soggetti economici virtuosi.
E la politica cosa fa?
Il panorama internazionale ci offre dichiarazioni condivisibili ma un po’ banali, così riassumibili: “…più morale, più trasparenza, più regole comuni, più economia reale…”.
Guardando in concreto i primi provvedimenti globali (Usa e UE in particolare), vedo interventi specifici in alcuni settori, attenzione al mantenimento dei livelli di occupazione, ma noto ancora difficoltà nel coordinare temporalmente le azioni dei singoli governi, nell’indirizzare la crisi verso settori economici anticiclici (infrastrutture ed energie alternative), ma soprattutto sento soffiare i venti forti del protezionismo.
Lo ha già fatto Putin nel 2008 con effetti drammatici (crollo del settore edilizio e chiusura della borsa), lo ha promesso Obama in campagna elettorale (“buy american”), lo hanno dichiarato esplicitamente Sarkozy e Merkel all’indomani degli aiuti di stato al settore dell’automotive.
Speriamo non sia così, speriamo che i buoni propositi enunciati nella conferenza internazionale di Davos (Svizzera), non restino solo sulla carta, ma si traducano in interventi concreti.
La storia, come sempre peraltro, ce lo ricorda.
Nel 1929, l’economia capitalistica attraversava una fase di pesante recessione, che tuttavia non impediva di intravvedere segnali di ripresa a medio termine.
Fu in quel preciso momento che l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, Herbert Hoover, appoggiò al Senato una significativa manovra economica protezionistica, con l’innalzamento di dazi all’importazione di buona parte dei prodotti che giungevano dai mercati europei ed asiatici.
Fu l’inizio della fine, alla recessione subentrò la depressione che condusse il Paese a cinque anni di povertà, con milioni di persone disoccupate, con crescenti tensioni sociali ben presto (queste sì) esportate in Europa e che hanno condotto quest’ultima verso nuovi modelli di governance di tipo totalitaristico.
Probabilmente oggi sono cambiate molte condizioni ambientali che impediranno il formarsi di nuovi fenomeni distruttivi, ma è comunque indubbio che una politica protezionistica, tanto più in un mondo ormai globalizzato, allunga i tempi di un fenomeno di crisi e ritarda la ripresa.
In generale ho maturato la convinzione che la politica non può risolvere la crisi, non per sua incapacità, ma per l’impossibilità di governare tutte le complesse dinamiche di un sistema capitalistico moderno.
Può però indirizzarla, e allora occorrerebbe innanzitutto tutelare la forza lavoro, senza distinzioni e privilegi di sorta (raccomandazione che vale soprattutto per noi in Italia), nell’osservanza del patto generazionale e al fine di garantire dignità morale a ciascun cittadino. Occorrerebbe poi agevolare l’economia (in tutti i suoi settori, senza distorsioni) verso la costruzione di un mondo se possibile migliore e più giusto, attraverso la realizzazione di valori che guardino anche ai mercati più poveri e nel rispetto del contesto ambientale in cui viviamo.
Pochi interventi ma risoluti, coordinati, sobri, tenuto conto del modello economico liberale e capitalistico che con tanta fatica abbiamo creato nel secolo scorso e che, allo stato attuale, si è comunque rivelato come l’unico realmente sostenibile.

Lissone, 09.02.2009

giovedì 22 gennaio 2009

TRATTATO DI KYOTO: L’UE e i risultati del 2008

Si è concluso il 2008, primo anno in cui i paesi ratificanti il protocollo di Kyoto sono tenuti a rispettare gli accordi. L’Unione Europea, faro guida in termini di impegno nella lotta contro il riscaldamento globale, guarda in parte con ansia e in parte con soddisfazione ai risultati raggiunti e si prepara a definire i prossimi importanti obiettivi per il 2020.
La tabella seguente (dati aggiornati al 2006 forniti dall’European Environment Agengy – EEA; i dati relativi al 2008 saranno verosimilmente disponibili nel 2010) riporta per l’Unione Europea e per i suoi più inquinanti membri:

a) gli obiettivi secondo il trattato di Kyoto,
b) i recenti risultati ottenuti nell’anno solare 2006 rispetto ai valori di riferimento del 1990,
c) le proiezioni al 2010 delle emissioni attraverso l’uso delle sole misure esistenti,
d) le proiezioni al 2010 del ricorso a meccanismi flessibili,
e) le proiezioni al 2010 delle emissioni inquinanti considerando misure aggiuntive, tecniche per l’abbattimento della CO2 (rimboschimento) e meccanismi flessibili di Kyoto,
f) il mantenuto o mancato rispetto degli accordi ratificati con il protocollo,
g) le proiezioni indicative di emissioni di gas serra per il 2020.

Dati EEA

Quota emissioni
rispetto a EU27 [%]

a)
[%]

b)
[%]

c)
[%]

d)
[%]

e)
[%]

f)

g)
[%]

EU27

100

N.A.

-7.7

-6.9

0

-10

N.A.

-12

EU15

80.7

-8

-2.7

-3.6

-3

-11.3

Ok

-9

Germania

19.5

-21

-18.5

-22.5

0

-26.2

Ok

-40

UK

12.7

-12.5

-16

-19.4

0

-20

Ok

-20

Italia

11

-6.5

+9.9

+7.5

-4

-4.6

Ko

0

Francia

10.5

0

-4

+0.8

0

-4.2

Ok

-14

Spagna

8.5

+15

+49.5

+52

-19.9

+20.5

Ko

+46

I dati mostrano quanto variegata sia la situazione in Europa: secondo le proiezioni Germania e Regno Unito saranno in grado già dal 2008 di rispettare gli impegni presi con il trattato. In Francia gli accordi verranno probabilmente rispettati anche senza ricorrere a meccanismi flessibili, mentre in Italia gli obiettivi non saranno rispettati neppure facendo ricorso a tali espedienti. Il bel paese, secondo le proiezioni dell’EEA, non sarà in grado neppure entro il 2020 di rispettare gli obiettivi fissati per il 2008-2012, anche ricorrendo a misure aggiuntive per la riduzione delle emissioni inquinanti. Preoccupante è il fatto che la maglia nera dell’intero gruppo dei 27 stati appartenenti all’EU sia assegnata alla Spagna, quinto stato in ordine di importanza in termini di emissioni.
I risultati dei singoli membri dell’Unione Europea in termini di riduzione di gas serra emessi nel 2006 rispetto al 1990 sono di piú difficile lettura se considerati rispetto ai vari settori di interesse, come indicato dalla seguente tabella.

2006 (dati EEA)

Energia

Trasporti

Processi industriali

Agricoltura

Rifiuti

EU27

-11%

+27%

-13%

-20%

-32%

EU15

-4%

+26%

-12%

-11%

-39%

Germania

-20%

-1%

-10%

-18%

-68%

UK

-13%

+15%

–50%

-18%

-58%

Italia

+8%

+28%

+1%

-10%

+4%

Francia

-4%

+17%

-28%

-12%

-15%

Spagna

+48%

+89%

+33%

+15%

+73%

In Germania la riduzione di emissioni è dovuta all’impegno in ambito energetico intrapreso già nel corso degli anni ’90 e, in parte, ai risultati ottenuti nell’agricoltura e nello smaltimento e trattamento dei rifiuti. Importanti risultati sono stati anche ottenuti nei trasporti a partire dalla fine degli anni ‘90. In particolare il settore dei trasporti in Germania indica un trend molto interessante, con emissioni che nel 2006 sono state sostanzialmente pari a quelle del 1990 (mentre l’EU15 soffre di un aumento del 26%).
Se, da un lato, l'impegno tedesco è da assumere quale esempio, dall'altro lato, occorre precisare che la strada da percorrere è ancora lunga, anche per i tedeschi stessi. L’elevata dipendenza da combustibili fossili del sistema energetico tedesco è indicativo di una ancora scarsissima efficienza energetica (Nella Germania del 2006 il mix di produzione energetica è stato: petrolio 35,7%, carbone 23,9%, gas naturale 22,8%, nucleare 12,6%, idroelettrica ed eolica 1,3%, e altre fonti 3,7%).
La tabella seguente offre un confronto in termini di emissioni per persona ed emissioni per prodotto interno lordo tra gli Stati analizzati in precedenza e ordinati ancora una volta secondo quota di emissioni relativa all’EU27:

2006 (EEA ed Eurostat)

Quota emissioni rispetto all’EU27

Gas serra emessi per persona
[Ton-CO2eq/persona]

Gas serra emessi per p.i.l.
[gr-CO2eq/euro]

EU27

100

10.4

442.5

EU15

80.7

10.7

381.7

Germania

19.5

12.2

432.7

UK

12.7

10.8

341

Italia

11

9.7

383.7

Francia

10.5

8.6

299.5

Spagna

8.5

9.9

441.8

Svizzera

-

7.1

172.1

La Svizzera, pur faticando a migliorarsi (gli obiettivi del trattato di Kyoto verranno raggiunti solo ricorrendo ai meccanismi flessibili), costituisce un ottimo esempio del possibile livello di emissioni pro capite e/o per prodotto interno lordo raggiungibile oggi da paesi tecnologicamente evoluti.
Italia e Spagna sono i paesi inquinanti più importanti dell’EU27 che non rispetteranno gli accordi del trattato di Kyoto. Mentre la Spagna paga il conto ambientale dovuto ad una relativamente importante crescita economica-industriale avviata nella seconda metà degli anni ’90, l’Italia, per via della sua negligenza, pagherà economicamente il mancato raggiungimento degli obiettivi di Kyoto: il contatore del debito italiano corre veloce e inesorabile su www.kyotoclub.org e a fine 2008 ha scoccato la bellezza di 1.5 miliardi di euro.
La responsabilità di tutto questo non può che essere attribuita alla miopia della classe politica-dirigente italiana.
Italia e Spagna sono anche gli unici paesi tra quelli presi in esame che non sfruttano l’energia nucleare quale tecnologia energetica. Tuttavia è importante osservare che Germania e Regno Unito hanno ottenuto importanti risultati rivedendo l’efficienza del proprio sistema energetico, senza sbilanciarlo in favore della tecnologia nucleare. Piuttosto sembra essere vincente la politica energetica adottata dai tedeschi e seguita recentemente dagli spagnoli, basata sull’incentivo delle fonti energetiche rinnovabili, quali il solare-fotovoltaico e l’eolico.
In vista dei recenti nuovi obiettivi approvati dall’Unione Europea per il 2020 è importante capire che occorre darsi subito da fare, consapevoli del fatto che noi italiani siamo già in pesante ritardo.

mercoledì 14 gennaio 2009

ALITALIA: IL FUTURO EUROPEO DEL SETTORE

Il giorno dopo l’operazione Air France – Alitalia, si ridisegna il panorama europeo del settore dei trasporti aerei.
Il colosso guidato da Spinetta (Amministratore Delegato di Air France) è attualmente la best company sul mercato, forte dell’espansione esterna e della ristrutturazione interna. Di fronte si trova Lufthansa, con la sua strategia multi-hub, e il terzo big, British Airways.
Di seguito si riportano alcuni macrodati a confronto delle tre maggiori compagnie aeree europee e dell’aggregato Alitalia/AirOne, riferiti all’anno 2007:

SOCIETA’

PASSEGGERI ANNUI

DESTINAZIONI

ALLEANZA

FATTURATO

PROFITTI

DIPENDENTI

AIR FRANCE

73 milioni

187

SKY TEAM

24.1miliardi

1.4 miliardi

74.959

LUFTHANSA

63 milioni

194

STAR ALLIANCE

22.4 miliardi

1.37 miliardi

100.779

BRITISH AIRWAYS

33 milioni

151

ONEWORLD

8.7 miliardi

0.8 miliardi

49.000

ALITALIA-AIRONE

24.5+7.1milioni

69+26

SKY TEAM – STAR ALLIANCE

4.8+0.6 miliardi

-494+6 milioni

20.000+3.400


Air France è attualmente il concorrente più competitivo non solo grazie alla preziosa fusione con la compagnia olandese KLM, ma anche alla pesante ristrutturazione aziendale portata avanti da Jean-Cyril Spinetta, da undici anni alla guida del colosso francese (quando si unisce continuità a competenza, il mix è quasi sempre vincente). In una recente analisi del quotidiano “Le Monde”, sono stati evidenziati tutti i positivi interventi del management francese: investimenti massicci nell’informatizzazione, rinnovamento della flotta per ridurne i consumi di carburante (voce di costo sempre più strategica nell’altalena dei prezzi del petrolio), utilizzo dell’aereoporto Charles de Gaulle, come unico grande hub. Nell’ultimo decennio Air France è stata la sola grande compagnia aerea mondiale a non aver registrato un solo anno di perdite, nel 2004 si è fusa con KLM, ed oggi è la prima al mondo per fatturato, ha un hub passeggeri a Parigi e un hub merci ad Amsterdam.
Lufthansa, sotto la guida di Wolfgang Mayrhuber, ha invece optato per una strategia diversa, multi-hub: oltre alla base Francoforte ha sviluppato Monaco e Zurigo, sta completando l’acquisizione delle compagnie aeree belga e austriaca, detiene la maggioranza azionaria di una compagnia aerea di diritto britannico presente con molti slot sull’aereoporto più trafficato d’europa, il londinese Heathrow. E’ inoltre in trattativa con la compagnia scandinava SAS e dalla settimana prossima debutterà a Malpensa con Lufthansa Italia.
Meno competitivo allo stato attuale appare il vettore inglese British Airways, causa il fallimento della fusione con l’australiana Qantas; proseguono invece le trattative con la spagnola Iberia, la cui fusione consentirebbe importanti vantaggi finanziari e di posizionamento geografico.

Da tutto ciò emerge chiaro un fatto: è in atto un raggruppamento tra vettori, destinato a proseguire nel medio periodo.
Nel 2008, causa il costo del petrolio e la recessione globale, nel mondo sono fallite una quarantina di compagnie, nell’unione europea vi sono stati migliaia di voli in meno, il traffico cargo è sceso dell’8%, e le previsioni per il 2009 segnano un ulteriore trend negativo.
Secondo la I.A.T.A. (Associazione Internazionale del trasporto aereo), nel 2008 le compagnie hanno perso a livello globale 5 miliardi di dollari e ne perderanno altri 2,5 nel 2009.
Si andrà dunque verso aerolinee sempre più grandi e i vettori più piccoli spariranno dal mercato.

Non è dunque difficile prevedere il futuro prossimo della nostra compagnia di “bandiera”.

Lissone, 13 gennaio 2009

domenica 11 gennaio 2009

ALITALIA - CAI: MANAGEMENT, STATUTO E COMPOSIZIONE SOCIALE

La CAI (Compagnia Aerea Italiana) è dallo scorso mese di novembre una società per azioni, attualmente (30.12.2008) composta da 20 soci - ma i “movimenti” delle partecipazioni minoritarie si susseguono con cadenza settimanale e a questi occorrerà in ogni caso aggiungere il Gruppo Toto, in attesa di definire il closing della cessione di AirOne - con un capitale sociale deliberato di € 1,1 miliardi, di cui allo stato attuale risultano versati esclusivamente € 116 milioni, su un sottoscritto di quasi € 466 milioni; il CdA è composto da 15 membri in rappresentanza dei soci “di maggioranza” della nuova Alitalia.
Il presidente è Roberto Colaninno, patron di Telecom Italia ai tempi del Governo D’Alema prima dell’arrivo di Marco Tronchetti Provera e attuale proprietario del Gruppo Piaggio. L’Amministratore Delegato è Rocco Sabelli, uomo di fiducia di Colaninno. Completano il board amministrativo Salvatore Mancuso (fondo Equinox e vicepresidente Cai), due esponenti di Banca Intesa spa, l’istituto di credito inizialmente advisor incaricato dal Governo nell’estate 2008 di predisporre il piano industriale della nuova compagnia di bandiera e di individuare una cordata di imprenditori nazionali da coinvolgere nel progetto e oggi socio “pesante” e “pensante” di CAI, gli avvocati Andrea Guerra e Carlo d’Urso, Marco Tronchetti Provera (proprietario Pirelli e Pirelli RE), Fausto Marchionni (rappresentante di Fon-Sai, la società di riferimento di Salvatore Ligresti), Angelo Riva (patron delle acciaierie Riva), Gianluigi Aponte (armatore campano residente in Svizzera), Francesco Caltagirone, Corrado Fratini, Francesco Paolo Mattioli (Atlantia, galassia Benetton) e Carlo Toto (AirOne).
Lo statuto sociale (ossia il contratto societario che disciplina i rapporti tra i soci) prevede esplicitamente una clausola di “lock-up” di 5 anni: ciò significa che il trasferimento delle azioni prima del termine di 5 anni è possibile solo attraverso cessioni ad altri azionisti della società di diritto italiano, e dunque non al futuro partner estero, il cui ingresso potrà avvenire per mezzo di un aumento di capitale sociale con offerta di azioni a terzi non soci.
La previsione di una clausola di limitazione alla cessione di azioni della durata quinquennale non nasce da un’esigenza politica (la durata di una legislatura), come troppo spesso si è sentito o letto in questi mesi, ma risponde ad un’esplicita norma di diritto societario che limita a cinque anni la durata massima dei patti parasociali (quale è di fatto la presente clausola).
Proseguendo, lo statuto concede la possibilità, dal 3° anno di vita della società, della quotazione in Borsa.
In CAI attualmente vi sono 4 soci principali: Immsi (Colaninno), Banca Intesa, Gruppo Riva e Atlantia (Benetton), con sottoscrizioni di capitale per poco più di 59 milioni di euro ciascuno.
Gli altri soci sono Ligresti (con Fondiaria Sai – 29 milioni di euro), Toto (quest’ultimo non mediante versamenti in denaro ma attraverso il conferimento dell’azienda AirOne, la cui esatta valutazione è ancora oggetto di trattativa), Marcellino Gavio (quasi 12 milioni di euro), Gruppo Marcegaglia (quasi 6 milioni di euro), Marco Tronchetti Provera (quasi 12 milioni di euro), Angelucci (imprenditore della sanità con poco più di 29 milioni di euro), Fratini (quasi 9 milioni di euro), Fondo Equinox (con poco più di 29 milioni di euro), Carbonelli D’Angelo (quasi 21 milioni di euro), D’Avanzo (quasi 14 milioni di euro), Orsero (quasi 12 milioni di euro), Caltagirone (quasi 12 milioni di euro), e Maccagnini, Edoarda Crociani, Maurizio Traglio, Giuseppe Fontana e il fondo “I2 Capital Portfolio spa“, con sottoscrizioni variabili tra i 6 e gli 8 milioni di euro.
Questa è l’ultima compagine sociale aggiornata a fine dicembre 2008, non si escludono pertanto alcuni intervenuti trasferimenti, stante l’intervento meramente simbolico e non imprenditoriale di alcuni soci.
Comunque, della variegata compagine societaria che raccoglie, salvo rare eccezioni, il “meglio” o il “peggio” della nostra classe imprenditoriale non si può tacere:
· delle condanne penali e civili a carico di Ligresti, Gavio e del Gruppo Marcegaglia all’epoca di Tangentopoli;
· del conflitto di interessi di Marco Tronchetti Provera, di Benetton e di Gavio, soci azionisti in aereoporti nazionali, in altri settori del trasporto e addirittura in alcune società advisors per la determinazione del prezzo di cessione degli assets da Alitalia a Cai stessa;
· dello stato di decozione (fallimento) di AirOne che con quest’operazione eviterà la bancarotta;
· della residenza fiscale “particolare” di Aponte e di Angelucci;
· delle problematiche ambientali e delle continue infrazioni alle norme Ue da parte delle acciaierie Riva;
· dei rapporti simbiotici tra Caltagirone e la politica.
Allo stato attuale manca ancora il socio più importante, il cosiddetto “partner industriale”, ossia la compagnia straniera chiamata a rilevare una quota importante della società per darne continuità e progettualità futura: inutile infatti dire che tutti gli analisti economici del settore sostengono che la competizione internazionale richiede ormai la fusione tra più compagnie nazionali, al fine di ridurre le economie di scala e di offrire copertura globale di rotte; l’esigenza del partner estero è peraltro fortemente sentita anche all’interno dell’attuale compagine societaria di Cai, tenuto conto delle specifiche attività imprenditoriali di ciascun socio.
Tutti i ben informati fanno ormai un solo nome: Air France.
I francesi entrerebbero nel capitale con una quota del 25% (diventando così il socio di riferimento), per un esborso che si aggirerà intorno ai 300 milioni di euro, tra capitale nominale e sovrapprezzo (ossia il plus acquisito dalla nuova compagnia, nel tempo intercorso dalla sua costituzione).
La scelta di Air France, in luogo di altri partner internazionali, Lufthansa su tutti, si spiega principalmente per il fatto che la compagnia francese è già legata dal 2001 alla vecchia Alitalia, tramite il sistema “Sky Team”, che consente alleanze commerciali e industriali a livello globale tra diversi vettori: lo scioglimento del rapporto comporterebbe quindi il sostenimento di una penale in capo a Cai di circa 130 milioni di euro.
Ai francesi la nuova compagnia “nazionale” chiede una quota maggiore dei proventi derivanti dalla vendita in Italia delle rotte intercontinentali gestite da Air France e KLM, oltre alla dislocazione di alcune rotte intercontinentali su Malpensa.
Quanto alla governance, i francesi dovrebbero stare per 5 anni al 25%, in virtù della clausola di “lock up” di cui sopra; alla scadenza, Alitalia sarà di fatto gestita da Air France e da un nocciolo “duro” di patrioti, mentre gli altri realizzeranno.
Per Air France non è infatti prioritario il controllo del 51% del vettore, ma il presidio del fruttuoso mercato nazionale, come risulta peraltro già evidente dal nuovo piano voli di Cai, che privilegia Fiumicino in luogo di Malpensa sia per i voli intercontinentali sia per le tratte di collegamento (cosiddetto “hub”).

Lissone, 06 gennaio 2009

ALITALIA - LA STORIA INFINITA: L'IMMAGINE DI UN PAESE SURREALE

Nello scorso mese di settembre è stato siglato tra CAI, (acronimo di “Compagnia Aerea Italiana”, capeggiata da Roberto Colaninno, attuale proprietario di Piaggio ed ex titolare di Telecom Italia, unitamente ad altri “capitani di ventura” della più conosciuta imprenditoria italiana) e i sindacati confederali di CGIL, CISL, UIL e UGL, oltre alle sigle autonome di ANPAC e UP, per i piloti, ANPAV e AVIA, per gli assistenti di volo, SDL, per il personale di terra, un “accordo quadro” di definizione dei rapporti di lavoro dipendente per gestire il passaggio delle maestranze dalla vecchia Alitalia alla newco CAI.
Le criticità emerse nella fase antecedente l’apposizione delle firme da parte delle sigle sindacali coinvolte, hanno riguardato il piano industriale, ritenuto dai sindacati fumoso, velleitario, piccolo e non in linea con le dinamiche del settore, ma soprattutto le vertenze del personale, con specifico riferimento al numero complessivo degli esuberi, agli ammortizzatori sociali da garantire, al tipo di contratto da sottoscrivere per le diverse professionalità presenti in azienda, alla retribuzione ed alla gestione dei suoi elementi complementari come gli scatti d’anzianità, le ferie e i permessi.
Criticità pericolosamente esplose il giorno 31 ottobre 2008, all’indomani dell’ennesima rottura del tavolo delle trattative tra CAI e i sindacati, preludio all’offerta vincolante che Colaninno e soci hanno poi comunque presentato in extremis, e con la sola adesione delle sigle confederali di CGIL, CISL UIL e UGL, al Commissario Straordinario di Alitalia, Dott. Augusto Fantozzi, per l’acquisto degli assets materiali e immateriali dell’ex compagnia di bandiera.
Di seguito i dati dell’accordo quadro (che, lo si ribadisce, ad oggi non risulta rispettato dalle categorie autonome di piloti, assistenti di volo e di terra – in questo senso, CAI ha recentemente dichiarato che in assenza di consenso provvederà alla “selezione nominativa” con chiamata individuale, un’assoluta novità per operazioni di queste dimensioni e che pone delicate questioni procedurali al fine di evitare discriminazioni tra i dipendenti).
Assunzione a tempo pieno di 12.639 dipendenti di Alitalia (in amministrazione straordinaria) e di AirOne (società presieduta da Carlo Toto): si tratta complessivamente di 1550 piloti, 3300 assistenti di volo e 7780 tra operai, impiegati, quadri e dirigenti.
L’azienda guidata da Colaninno propone una nuova selezione del personale sulla base del piano industriale e garantendo, per piloti e assistenti di volo, il criterio dell’anzianità maturata in Alitalia o AirOne.
Esclusi tutti i dipendenti che nel corso della cassa integrazione straordinaria matureranno i requisiti per il prepensionamento, tra i criteri di selezione sono previsti precisi profili professionali per piloti e comandanti, mentre per il personale di terra assume un ruolo cruciale quello della localizzazione.
Il piano CAI prevede infatti una “struttura multibase”, senza hub, ma con network disegnato intorno agli aeroporti di Milano, Roma, Venezia, Torino, Napoli e Catania. Da qui la scelta logica di indicare come prioritario nelle selezioni il luogo di residenza dei dipendenti. Anche per il personale di terra, come per piloti e assistenti, varrà l’anzianità aziendale, si terrà conto dei carichi di famiglia, garantendo la precedenza ai genitori con minori portatori di handicap gravi e ai nuclei monoreddito. Garantita anche la clausola di salvaguardia per le lavoratrici in astensione obbligatoria e per i lavoratori “temporaneamente non idonei”: CAI non includerà questi dipendenti negli eventuali tagli cui dovesse esser costretta a far ricorso.
Trattamento a parte per i contratti a termine (cosiddetti “precari”): possibilità di assunzioni flessibili per fronteggiare periodi di riqualificazione del personale in mobilità ed eventuali esigenze produttive.
Capitolo esuberi: la girandola dei numeri mediatici è infinita, ufficialmente sono 3250 (in estate le cifre erano più pessimistiche e individuavano un range mobile tra i 5000 e i 7000 dipendenti), in realtà dovrebbero essere molti di più se si considera che a fine 2007 il Gruppo Alitalia comprendeva 18mila addetti, quello AirOne 3mila, per complessive 21mila unità. Dunque se a questi sottraiamo i 12.500 che CAI si impegna ad assumere, i lavoratori “lasciati” a casa dovrebbero essere tre le 8.000 e le 9.000 unità: dati più precisi oggi non ci vengono forniti.
Comunque per questi “sfortunati” sono garantiti 7 anni di copertura retributiva e contributiva mediante la CIGS (cassa integrazione guadagni straordinaria) di quattro anni e la mobilità di tre anni mediante l’attribuzione dell’80% dell’attuale stipendio.
Per assicurare questa somma verrà utilizzato il Fondo di integrazione al reddito, che sarà finanziato anche con l’aumento di 3 euro del prezzo del biglietto pagato dai viaggiatori in tutti gli aeroporti italiani.
Per dover di cronaca si ricorda che, al di fuori del caso Alitalia, gli ammortizzatori sociali non operano a favore dei dipendenti assunti in aziende con meno di 15 professionalità, mentre per le altre, garantiscono nel migliore dei casi il 70% della retribuzione e sono concessi per un massimo di 24 mesi.
Da ultimo, con riferimento alla tipologia contrattuale, si ricorrerà nella maggior parte dei casi a quella in corso con AirOne, che garantisce per dipendenti e piloti una retribuzione certamente superiore rispetto a quella vigente con Alitalia, seppur comunque inferiore rispetto a quella di altri competitors europei come Air France e Lufthansa.
Ma possiamo ancora considerare CAI un vettore internazionale che deve confrontarsi sul mercato con operatori del calibro di Air France, Lufthansa e British Airways?

Lissone, 12 novembre 2008