venerdì 26 dicembre 2008

TRATTATO DI KYOTO: Obiettivi per il 2008 - 2012

Il trattato di Kyoto nasce dal protocollo omonimo, redatto l’11 Dicembre 1997 dal United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), istituito nel 1992 durante la conferenza mondiale sull’ambiente a Rio de Janeiro. Obiettivo dell’UNFCCC, e quindi del trattato di Kyoto, è la discussione e l’attuazione di misure utili a combattere le cause dei cambiamenti climatici (riscaldamento globale) identificate dall’International Panel for Climate Change (IPCC) a partire dal 1988.

Nel dettaglio il trattato di Kyoto del 1997 propone di ridurre le emissioni di gas serra del 5.2% rispetto ai valori misurati nel 1990 (anno di riferimento), entro il 2008 e su scala globale.
Come espressamente dichiarato dal trattato, tale obiettivo può essere raggiunto anche attraverso l’utilizzo di meccanismi flessibili, quali il clean development system o il joint implementation (rispettivamente CDM e JI, riconoscenti crediti di emissioni ai paesi industrializzati che realizzino in paesi in via di sviluppo progetti utili a ridurre le emissioni inquinanti locali), oppure il discusso emissions trading (ET, che consente lo scambio di crediti di emissioni tra paesi industrializzati, da paesi che hanno ottenuto risultati migliori rispetto al trattato a paesi che tale obiettivo non hanno raggiunto, generando, di fatto, una vera e propria borsa delle emissioni per assecondare gli obiettivi da raggiungere secondo il trattato: una tonnellata di CO2 vale al 30.11.2008 circa 20.25US$).
Una partecipazione minima di 55 paesi e del 55% delle emissioni globali di gas serra sono richiesti al fine dell'entrata in vigore del trattato.

Partecipazione:
La comunità europea, indiscutibilmente molto sensibile e attiva nei confronti del clima globale, ha ratificato il trattato nel 2002 e si è posta come obiettivo locale (EU15) la riduzione delle emissioni di gas serra pari all’8%. I maggiori paesi inquinanti con i rispettivi obiettivi di riduzione per il 2008 rispetto al riferimento del 1990 sono, in ordine, Germania (-21%), Regno Unito (-12.5%), Italia (-6.5%), Francia (0%) e Spagna (+15%).

Gli USA (responsabili del 36,1% delle emissioni, primo paese inquinante al mondo) hanno simbolicamente firmato il trattato, senza tuttavia ratificarlo, verso fine mandato dell’amministrazione Clinton; successivamente l’amministrazione Bush ha deciso di non ratificarlo, giustificando la scelta come eccessivamente penalizzante in termini economici per l’economia americana.
In merito, Greenpeace ha denunciato il ruolo di Exxon, la nostra Esso, impegnata nel finanziare prima la campagna elettorale di Bush e nel condizionare poi la politica americana in materia di tutela ambientale agevolando economicamente gruppi di ricerca con l’obiettivo di screditare la teoria unanimemente accolta sul riscaldamento globale.

La Russia ha aderito e ratificato il trattato nel 2004. Per via della rilevanza delle sue emissioni inquinanti (17.4% al 1990), la partecipazione russa ha comportato il superamento dei requisiti vincolanti relativamente al 55% delle emissioni globali e conseguentemente l’entrata in vigore del trattato.

Cina e India, pur responsabili di una grossa fetta delle emissioni inquinanti, non sono state considerate colpevoli del riscaldamento globale provocato negli scorsi decenni e quindi non sono state direttamente coinvolte negli impegni proposti dal trattato. Cina e India hanno comunque intrapreso iniziative autonome volte a combattere il riscaldamento globale allineandosi ai propositi del trattato. Tuttavia la loro esclusione ha creato non pochi problemi nel convincere altri Stati, preoccupati dalla competizione economica con tali paesi emergenti, ad aderire al trattato di Kyoto.

Lo sforzo di paesi impegnati a fronteggiare la stessa riduzione percentuale di emissioni inquinanti può essere molto diverso in funzione della storia industriale che hanno vissuto dal 1990 al 1997. Paesi come la Germania, fortemente industrializzatisi e quindi cresciuti come portata inquinante in quegli anni, si vedono costretti ad affrontare un impegno ben più gravoso di paesi come la Russia, le cui emissioni inquinanti sono infatti pesantemente diminuite in seguito al 1990 per via di una forte deindustrializzazione. Ciò solleva altresì dubbi sull’impegno morale russo, visto il beneficio economico immediato che ne ricava attraverso l’emissions trading.

mercoledì 19 novembre 2008

E ADESSO QUALE ECONOMIA ?

L’economia ritorna al futuro.

Si potrebbe sintetizzare con questa frase il probabile scenario che interesserà il mondo economico nei prossimi anni, tenuto conto della recente crisi finanziaria. Certo è sicuramente presto per trarre conclusioni alla luce dell’attuale contesto economico internazionale: la crisi della finanza non è ancora terminata, tutte le principali Borse europee, asiatiche e americane proseguono la loro frenetica corsa al ribasso, i segni di recessione economica sono già evidenti nei cali dei consumi dei cittadini europei ed americani, alcune imprese industriali, le più indebitate e le meno competitive, sono già sull’orlo di una bancarotta, e la crisi economica raggiungerà probabilmente il suo apice nei primi mesi del 2009.
Paradossalmente però, è proprio nei momenti di crisi che è possibile ottimizzare il business plan di un’economia nel medio-lungo termine, attraverso gli investimenti e concentrando risorse (quelle disponibili) verso gli assets immateriali della propria attività: marchio, ricerca e sviluppo, marketing, riposizionamento sul mercato, implementazione di nuova tecnologia. Con l’obiettivo di essere i primi a ripartire al termine della tempesta.
Per fare ciò, o meglio, per aiutare le imprese italiane a rendere possibile un secondo “vero” miracolo, occorrerebbe definire quanto prima a livello nazionale:
  • un nuovo assetto contrattuale che leghi il salario alla produttività, e che introduca nel mondo del lavoro quegli strumenti di flessibilità che tanto invidiamo agli Stati Uniti;
  • un deciso intervento sul piano delle infrastrutture, completando e se possibile implementando quei collegamenti stradali e ferroviari, soprattutto nel Nord Italia – vero locomotore del sistema Paese – ad oggi ancora nella fase progettuale;
  • la liberalizzazione dei servizi, soprattutto in quei settori dove vige scarsa competitività e dove i prezzi sfuggono alla legge della domanda-offerta e assomigliano sempre più ad una sorta di dazio interno;
  • la semplificazione degli adempimenti burocratico-amministrativi: aprire oggi un’impresa in Italia richiede molto più tempo che in qualsiasi altro Paese industrializzato;
  • un ulteriore alleggerimento del carico fiscale pendente su imprese e lavoratori, per facilitare la ripresa della domanda interna, senza la quale un Paese non cresce.
Occorre poi riscrivere le regole del mercato, non solo quello finanziario come si legge o si sente dire da più parti negli ultimi tempi, ma anche quello industriale. Abbiamo cavalcato la globalizzazione, con i suoi effetti positivi ma anche con quelli negativi (es. la crisi dei subprime prima e dei derivati poi, la delocalizzazione della produzione industriale, la problematica ambientale), senza aver definito regole e obblighi comuni.
Non si tratta di imporre nuovi dazi o barriere doganali, come sciaguratamente suggerito dal nostro Ministro dell’Economia Giulio Tremonti in alcuni suoi recenti interventi pubblici: ricordo che è stato proprio il protezionismo americano la principale causa della prolungata crisi recessiva del 1929. Sappiamo che ormai dobbiamo confrontarci con un mercato più ampio rispetto al passato, con nuove economie competitive (il cosidetto “BRIC”: Brasile, Russia, India e Cina, ma non solo), ma occorrono nuove regole che non possono e non devono essere scritte a livello di singoli Stati, ma richiedono un coinvolgimento internazionale. Occorre istituire un nuovo organismo, sull’esempio del prossimo G20 in programma per il mese di novembre a Washington, incaricato di riscrivere le regole in gioco, di applicarle alle singole economie, di verificarne l’efficacia nel tempo e di monitorarne l’attuazione anche con interventi di carattere sanzionatorio.

E’ quindi probabile, se non addirittura auspicabile, il ritorno a fare industria. Nel senso che l’attività manifatturiera deve tornare a rioccupare una posizione di assoluta centralità nell’economia mondiale, a discapito, si badi bene, non della leva finanziaria nel suo complesso – fonte indispensabile al sostegno del ciclo produttivo – ma della finanza cosidetta “creativa”. L’industria che si riprende la leadership non è e non può più essere quella del ventesimo secolo. Il settore ha vissuto processi di trasformazione strutturali, basti vedere l’evoluzione del mercato internazionale degli ultimi trent’anni, il primato del valore aggiunto quale fonte di massimizzazione del profitto, il ridimensionamento delle nostre imprese, sempre più di medie-piccole dimensioni a discapito delle grandi imprese di inizio novecento.

Solo così, a mio modesto parere, sarà possibile rilanciare un Sistema Paese da troppo tempo immobile, incapace di reagire al suo declino, stretto sul suo passato di grande paese industrializzato.
Solo così sarà possibile rilanciare politiche di sostegno per le classi più disagiate, ridare fiducia ad un ceto medio impaurito, e offrire speranza e fiducia ai giovani che entrano nel mondo del lavoro.

RISCALDAMENTO GLOBALE

L’atmosfera che avvolge la crosta terrestre è composta da gas serra (vapor acqueo, biossido di carbonio, metano e altri) che hanno la particolarità di riuscire a mitigare l’escursione termica tra il giorno e la notte e tra le varie stagioni. Sono gas di una finezza particolare che lasciano filtrare i raggi solari (di lunghezza d’onda molto breve) ma trattengono e respingono la radiazione infrarossa (di lunghezza d’onda maggiore) emessa dalla terra per effetto del suo calore. La conseguenza è il famoso effetto serra, che consiste in un incremento della temperatura legato alla difficoltà di evacuazione delle radiazioni dall’atmosfera. Grazie ad essi la temperatura media sulla terra è di 15°C. In loro assenza sarebbe oltre 30°C piú bassa.
La crescita della popolazione, l’inquinamento atmosferico e la deforestazione sono le ragioni fondamentali di cambiamenti climatici che stanno mettendo sempre pi
ú a dura prova la sopravvivenza delle specie sul pianeta, compreso l’uomo.
Negli ultimi 40 anni sono state osservate modificazioni importanti nella composizione dei gas serra dovute all’incremento di inquinamento atmosferico e ad una riduzione di organicazione da fotosintesi per via della deforestazione. In particolare il biossido di carbonio è cresciuta del 30% e la concentrazione di metano è raddoppiata. Ne consegue che l’effetto serra prodotto dall’atmosfera è amplificato e la temperatura sale generando un riscaldamento globale.
Sebbene nell’ultimo secolo la temperatura media sia aumentata solo di 0.76°C (IPCC) questo ha portato ad una maggiore evaporazione delle masse oceaniche, innalzando il contenuto di vapor acqueo nell’atmosfera ed eventualmente amplificando ulteriormente l’effetto serra. Sulla base delle tendenze attuali si prevede che questo secolo possa portare ad un aumento di temperatura molto consistente, con le pi
ú pessimistiche stime che parlano di un incremento di oltre 6°C.
Le conseguenze di tutto questo sono palesi già oggi: l’incremento di vapor acqueo nell’atmosfera porta ad una tropicalizzazione del clima e a tempeste tropicali (come l’uragano Katrina, 2005, 1836 vittime), all’inaridimento delle terre emerse con pesanti ripercussioni sull’agricoltura, all’estensione dell’habitat di insetti portatori di malattie come la malaria.
Il quadro potrebbe pesantemente peggiorare nei prossimi anni portando al completo scioglimento dei ghiacci polari con conseguente innalzamento delle acque (città come New York o Calcutta verrebbero completamente sommerse, mobilitando di conseguenza una fetta importante della popolazione mondiale). Lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia combinato con la desalinizzazione legata alla maggior quantità di acqua oceanica potrebbe modificare le correnti oceaniche, potenziando la corrente oceanica polare e deviando quindi la corrente del Golfo del Messico, portando paradossalmente l’Europa ad un’era glaciale.

In questo scenario i paesi industrializzati si propongono di intervenire secondo il programma dettato dal Protocollo di Kyoto, senz’altro buono nelle intenzioni ma deficitario nelle partecipazioni e, probabilmente, anche negli obiettivi.

E’ fondamentale che tutti gli individui, pur nella possibilità di prendere decisioni solo a livello locale, inizino da subito a ragionare in maniera globale.